Sembravano definitivamente sgonfiati, i timori dello scoppio di una bolla immobiliare cinese, in conseguenza dei nuovi interventi congiunti da parte di governo e istituzioni monetarie. Eppure, gli ultimi dati provenienti da Pechino non sembrano remare nella giusta direzione, alimentando nuove speculazioni sulla presunta incontrollabilità del real estate nazionale. I timori di un crac immobiliare rimangono comunque molto ridotti: la presenza statale in banche e imprese del settore dovrebbe garantire un’adeguata scialuppa di salvataggio.
A leggere i dati sull’indebitamento privato cinese, e sulla sua progressione temporale, ci sarebbe probabilmente da preoccuparsi. Prezzi e debiti proseguono di pari passo in una corsa al rialzo che – secondo alcuni osservatori – rischia di creare scompensi non dissimili da quelli rilevati nel 2008 negli Stati Uniti.
Tuttavia, qualche sostanziale differenza con il mercato a stelle e strisce sembra essere evidente: contrariamente agli States, infatti, solo una piccola parte dei risparmiatori riesce a investire all’estero e, in ogni caso, la presenza statale sull’economia è talmente imponente da rendere molto limitati i pericoli di uno scoppio della bolla immobiliare così temuta.
“Nonostante” – dichiara in merito un rapporto di Confindustria – “il mercato immobiliare traballi, perché i prezzi sono saliti molto e ci sono tante abitazioni invendute, c’è un alto fabbisogno insoddisfatto di case: nel 2010 c’erano circa 150 milioni di alloggi nei centri urbani, 85 milioni meno del numero di famiglie urbane residenti (…) Le misure di stimolo dell’economia per far fronte alla crisi – si legge nel documento – hanno innescato un boom creditizio: dal 2008 al 2009 l’indebitamento del settore privato è balzato dal 103,7% del Pil al 127,2%, un aumento di 23,5 punti in un anno, attestandosi al 127,4% del Pil nel 2011 (fonte Fmi; per la Cina, questo dato include i prestiti alle imprese statali). Un salto così pronunciato e concentrato nel tempo non è ripetibile e può causare squilibri finanziari”.
“Tuttavia” – conclude Condindustria – “vi sono due grandi peculiarità, rispetto agli altri paesi, che rendono il sistema bancario cinese più resistente, paradossalmente per gli stessi motivi per cui risulta inefficiente: primo, la Cina può contare su un elevatissimo numero di risparmiatori che non possono indirizzare altrove i propri capitali, in termini sia di intermediari sia di paesi in cui investire (in ciò ricorda molto l’autarchia finanziaria dell’Italia negli anni ’70 e ’80); secondo, nessun credito incagliato diventa perdita se non se ne chiede il rimborso, quindi è poco probabile che lo Stato, che possiede sia le banche creditrici sia le imprese pubbliche debitrici, inneschi tale meccanismo”.