Stando al tenore letterale dell’art. 56 del c.d. decreto legge sulle liberalizzazioni, l’Imu (l’imposta municipale unica “sostitutiva” della vecchia imposta comunale sugli immobili) sui fabbricati invenduti può essere ridotta fino al 3,8 per mille. Una possibilità in mano ai Comuni, che potranno pertanto scegliere di tagliare del 50% rispetto al 7,6 per mille ordinario, l’aliquota dell’imposta da applicarsi agli immobili invenduti.
La ratio della disposizione è piuttosto semplice: con questo provvedimento il governo vuole cercare di alleggerire la pressione fiscale su quelle imprese di costruzione che si trovino a chiudere l’anno con molti immobili invenduti in magazzino, unitamente al contemporaneo intervento di revisione Iva in termini di cessione e locazione degli immobili abitativi, sorto per cercare di conferire un po’ di sollievo al critico mercato immobiliare italiano.
Ad ogni modo, per poter usufruire del potenziale sconto Imu sui fabbricati invenduti è necessario che il contribuente Imu possa qualificarsi agli occhi del Fisco come una impresa di costruzione, svolgendo – così la circolale ministeriale n. 45 del 2 agosto 1973 – “anche occasionalmente attività di produzione di immobili per la successiva vendita, a nulla influenzando che la materiale esecuzione dei lavori sia in tutto o in parte affidata ad altre imprese”.
Inoltre, deve trattarsi di fabbricati destinati alla vendita la cui costruzione o il cui recupero risulti definitivamente completato. Pertanto, in altri termini, si deve trattare di immobili finiti, adatti a costituire il tipico magazzino dei prodotti dell’impresa di costruzione o di ristrutturazione.
Aggiungiamo ancora come l’impiego dell’aliquota ridotta abbia dei limiti temporali, con una estensione generale pari a tre anni. Trascorsi 36 mesi dall’ultimazione dei lavori si tornerà pertnato a subire il carico tributario pieno. L’agevolazione potrà invece cessare nel momento in cui il cespite sarà qualificato come immobiliazzazione o nell’ipotesi della sua locazione.